Gli account dei vip su twitter – quelli con più di 10 milioni di followers – si comportano spesso come bot. Lo dimostra una ricerca recente condotta dall’Università di Cambridge che ha studiato i dati di Twitter per identificare i bot, studiarne il comportamento e capire quale impatto hanno sull’attività del social network.
I ricercatori hanno diviso gli account in due categorie, a seconda del numero di follower che avevano. Hanno rilevato che i profili con più di 10 milioni di follower tendono a ritwittare in modo simile a quello dei bot. Le attività dei profili meno seguiti sono più simili ai comportamenti umani.
I risultati di questa ricerca saranno presentati alla conferenza internazionale IEEE/ACM International Conference on Advances in Social Networks Analysis and Mining (ASONAM) a Sydney, Australia.
I bot, come le persone, possono essere maliziosi. maleducati oppure rispettosi ed educati. Il termine bot è spesso associato allo spam, a contenuti offensivi o di parte. In realtà molte grandi organizzazioni utilizzano i bot per veicolare i loro contenuti. Ad esempio, la BCC o la CNN che producono centinaia di contenuti e news tutti i giorni, si affidano a strumenti di condivisione automatica per pubblicare nel modo più efficiente. Questi account, che gli utilizzatori riconoscono come affidabili fonti di informazione, si comportano effettivamente come i bot.
“Un utente Twitter “umano” può comportarsi come uno spammer o un troll, così come un bot può essere benigno e veicolare informazioni verificate e utili” spiega Zafar Galani, studente PhD a Cambridge che ha partecipato alla ricerca, “è interessante capire come individuare gli account automatizzati e studiare gli effetti che il loro comportamento ha sulla community”.
Si stima che sul totale degli account Twitter, i bot siano tantissimi, tra il 40 e il 60%. Alcuni hanno decine di milioni di follower, anche se la maggior parte ne ha meno di un migliaio. I numeri sono simili a quelli dei profili “umani”.
Per individuare i profili automatici, i ricercatori hanno usato lo strumento online BotOrNot (poi rinominato BotOMeter), che però si è rivelato essere inaccurato. Quindi lo saff di ricerca ha deciso di passare a un approccio manuale, visitando i profili e determinando se erano bot o no.
Per classificare i profili, gli studenti hanno tenuto conto di diversi parametri: la data di creazione dell’account, la frequenza dei tweet, i contenuti postati, la descrizione presente sul profilo, le risposte ad altri tweet, i like messi e le interazioni con gli amici. Sono stati analizzati 3.535 account: 1.525 sono stati classificati come bot e 2.010 come umani. Dopodiché hanno realizzato un algoritmo che si è rivelato accurato nell’86% dei casi e che utilizza 21 parametri diversi.
I bot twittano più degli umani, ritwittano più spesso e frequentemente indirizzano gli utenti a visitare un link esterno. Fanno eccezione gli account con più di 10 milioni di follower, dove le differenze si affievoliscono e il comportamento risulta essere simile, sia per volume di tweet che di retweet.
“Probabilmente perché non riescono a creare contenuti originali e quindi preferiscono ritwittare I contenuti degli altri” ha detto Galani.
Inoltre i bot, sebbene stiano diventando sempre più sofisticati, non riescono a sostenere conversazioni strutturate e mettono molti meno “mi piace”.
A livello di engagement, però, sono gli umani a registrare i risultati più positivi. In media i loro tweet registrano 19 volte più like e 10 volte più retweet.
“Molte persone pensano che i bot siano il male, ma non è vero. Esattamente come le persone, possono essere educati o maleducati. Ora vogliamo studiare come la loro attività influenzi la community, quale sia il loro costo sociale, come modificano le relazioni e le conversazioni online? Quello che sappiamo per certo, è che non scompariranno” conclude Galani.
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