Sul finire dell’estate 2017 in Italia due eventi promozionali hanno fatto parlare di sé: la pubblicità televisiva Buondì Motta e la campagna scouting-recruiting di Carpisa .
** di Emanuela Zaccone
Nel primo caso veniva mostrato un tipico contesto da famiglia felice secondo stereotipo – casa in campagna, madre impegnata nelle faccende domestiche – in cui irrompeva una bambina petulante chiedendo di una colazione sostanzialmente sana. La mamma sosteneva che non esistesse nulla di simile e, certa di non poter essere smentita, invocava un asteroide su di sé qualora fosse stata in errore. A quel punto un meteorite arrivava a schiacciarla. Nel seguito dello spot succedeva lo stesso anche al padre. Qualche giorno dopo su Facebook Buondì lanciava un generatore automatico di oggetti-che-colpiscono per creare delle Gif con le proposte degli utenti per colpire la madre o il padre. Già dal lancio del primo spot si genera un vespaio di critiche online, per un totale – secondo i dati diffusi da Matteo Flora di TheFool – di 25.000 conversazioni sui social media. Si impennano anche le ricerche per Buondì su Google e intanto si consuma il rito marcatamente social dello schieramento: c’è chi coglie l’ironia della mossa di Buondì e chi si indigna perché è stata colpita la madre – simbolo intoccabile della civiltà italiana – è stata urtata la sensibilità di moltissimi bambini e, da ultimo, scelto un oggetto che evocherebbe scenari tra il terroristico e l’apocalittico.
Tra denunce ai garanti, tentativi di dialogo tra le due parti e fiumi di post che spiegano la scelta pubblicitaria di Buondì, comincia ad alzarsi il coro del “purché se ne parli”.
Più o meno negli stessi giorni, Carpisa lanciava una campagna nei suoi negozi: chi avrebbe acquistato un prodotto avrebbe avuto la possibilità di candidarsi per uno stage di un mese presso l’azienda, previa presentazione di un piano di comunicazione.
Carpisa diventa così il simbolo del deprezzamento della professionalità, della mancanza di rispetto verso il lavoro nel nostro Paese e infine dello sfruttamento di chi ne è in cerca.
Così, mentre la maggior parte degli utenti sui social media critica la posizione di Carpisa, altri ne giustificano le scelte sostenendo che ci si è assuefatti a una situazione simile e che bisogna adattarsi per trovare lavoro. C’è addirittura un cortocircuito tra i due casi: in molti si candidano spontaneamente per lavorare gratis (!) per Motta dichiarando che almeno loro – a differenza di Carpisa – sono creativi e sarebbero dunque più desiderabili.
A ogni modo, anche per Carpisa comincia ad alzarsi da subito il coro del “purché se ne parli”. Sembra esserci una sorta di processo che si replica in ogni situazione simile:
1) Un evento che genera conversazioni si diffonde in maniera virale sui social media indipendentemente dal mezzo di partenza
2) Le opinioni sui social media diventano oggetto di ulteriore discussione su blog, giornali, trasmissioni televisive
3) Nascono eventuali attività di real time marketing da parte di altri brand
4) L’evento si riduce a un “purché se ne parli”.
Quest’ultimo aspetto, dato per scontato e considerato come summa praticamente di qualunque azione sui social media, è in realtà il vero problema: i social media sono generatori di conversazione, ma questa in sé non è il fine della comunicazione, quantomeno non solo.
Mentre infatti i dibattiti online contribuiscono a determinare la reputazione di un brand, quest’ultima non può alimentarsi e non è definita dal numero stesso di conversazioni. Non si può, dopo oltre 10 anni di social media marketing, continuare a pensare che di più è meglio, nel bene e nel male. La reputazione di un brand è parte della sua identità e della relazione che vuole stabilire con i propri utenti/clienti, ridurre questi ultimi a generatori di vanity metrics è inutile e in molti casi dannoso.
Giustificare ogni azione con “purché se ne parli” significa mortificare la stessa spinta creativa che ne è alla base.
La reputazione di un marchio online è parte della sua immagine: il rispetto degli obiettivi del brand deve guidare ogni azione, indipendentemente dal canale su cui questa si svolge. Soprattutto, la coerenza con i valori del brand deve essere parte del processo. Altrimenti riduciamo il marketing a un pallottoliere e gli utenti dei social media a fabbricatori di interazioni.
** Emanuela Zaccone: Digital Entrepreneur, co-founder e Marketing & Product Manager di TOK.tv. Ha oltre 10 anni di esperienza come consulente e docente in ambito social media analysis e strategy per grandi aziende, startup e università. È autrice di “Digital Entrepreneur: principi, pratiche e competenze per la propria startup” (Franco Angeli, 2016) e di “Social Media Monitoring: dalle conversazioni alla strategia” (Flaccovio, 2015).
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