Sempre più perfezionati ed impiegati all’interno delle moderne aziende: ecco cosa sono i chatbot, a cosa servono, e quali sono gli esempi di applicazione più famosi.
È stato stimato che entro il 2020 l’80% delle aziende integrerà nella propria strategia digitale il lavoro svolto da un chatbot.
Ma che cosa sono nel concreto queste strane entità che da qualche anno si affacciano sulla scena delle intelligenze artificiali?
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Chatbot è un termine composto risultante dalla fusione di due parole inglesi, ovvero “chat” e “robot”, e con questa definizione si indica un programma che simula conversazioni come un essere umano.
Un software messo a punto per fare due chiacchiere con l’utente di turno, che ha il compito (e spesso il piacere) di interrogare questo robot dalle capacità linguistiche umanoidi, con il fine di ottenere le informazioni desiderate.
Un chatbot viene spesso indicato come una prima forma delle applicazioni delle intelligenze artificiali ma, sebbene col passare del tempo siano stati sempre più perfezionati, ci sono ancora molti limiti insiti nella natura di chatbot che spingono in molti a rifiutare questa definizione.
In un primo momento i chatbot sono stati sfruttati dalle aziende per dare supporto e aiuto ai propri clienti automatizzando il processo di assistenza, con capacità che si limitavano a fornire risposte a dubbi e domande dei clienti seguendo uno schema prestabilito sulla scia delle rinomate Frequently Asked Questions (FAQ).
Un modo interattivo per provare a risolvere i problemi riscontrati degli utenti e prevedibili dalle società, che nel tempo si è evoluto fino ad assumere le forme di un assistente virtuale capace di rispondere non solo attraverso messaggi scritti, ma anche utilizzando output vocali.
Recenti ricerche hanno dimostrato che l’iniziale euforia intorno ai chatbot stia procedendo verso il declino ma, anche se sono ancora in molti ad ignorare cosa sia e come funzioni un chatbot, in tanti hanno avuto almeno una volta un’esperienza con questa forma di intelligenza artificiale.
Prendendo a riferimento gli assistenti virtuali, ad esempio, quanti potrebbero dire di non aver mai avuto a che fare con Siri, l’onnipresente assistente di iPhone, Cortana, l’aiutante degli utenti in Windows 10, oppure il concorrente Google Now da poco evoluto in un intelligente maggiordomo chiamato Assistant?
Al giorno d’oggi chiunque usi uno smartphone o un computer con costanza può incorrere nella richiesta di aiuto ai cosiddetti assistenti digitali, sempre pronti a fornire le risposte necessarie a dissolvere i problemi degli utenti.
Questi assistenti virtuali, però, sono di certo una dimostrazione più evoluta e complessa di chatbot, in quanto oltre a rispondere in maniera testuale o vocale alle nostre richieste, possono anche intraprendere azioni come aprire applicazioni, comporre un numero di telefono oppure effettuare ricerche sul web.
Il campo di applicazione più vasto e fertile per i chatbot risulta essere quindi all’interno delle società per il problem solving: possono essere usati per accorciare le distanze tra clienti e azienda, comunicando con la clientela al fine di risolvere problemi riguardanti la vendita o l’utilizzo di prodotti e servizi.
Ma oltre ad essere un efficace ponte tra utenti e servizi, un chatbot può fare molto di più per il marketing aziendale.
Questa tipologia di software, infatti, può:
Non soltanto conversazioni, dunque, ma anche acquisizione di big data importanti per le società.
Questo interessante processo di automatizzazione ha raccolto il consenso di molti colossi mondiali: da tempo nomi come Facebook, Google, WhatsApp, o Telegram sono al lavoro per mettere a punto chatbot sempre più intelligenti e funzionali per risolvere i problemi degli utenti.
Sebbene su WhatsApp non si sia ancora visto uno sviluppo degno di nota – eccezion fatta per qualche coraggioso tentativo da parte di sviluppatori audaci –, i chatbot di Facebook, Google e Telegram sono molto diffusi, conosciuti, e alla portata di tutti.
Era l’Aprile 2016 quando Facebook lanciò il suo chatbot, un assistente virtuale in grado di intrattenere una conversazione con gli utenti del social network di Zuckerberg, fino a sfondare ampiamente la soglia dei 30mila chatbot creati da quanti ne hanno intravisto le potenzialità, come le aziende che curano la propria presenza anche su questo social media.
Quanto al chatbot di Google, invece, ogni possessore di un dispositivo mobile Android di certo lo ha sfruttato almeno una volta: Google Now è parte integrante dell’applicazione di ricerca di Google, presente di default sui dispositivi con sistema operativo del robottino verde.
Infine, una spinta decisiva all’interesse del pubblico verso i chatbot è sicuramente data da Telegram: tra le prime app di messaggistica istantanea a sfruttare questa tecnologia, Telegram spalanca le porte sulle infinite applicazioni dei bot, automatizzando operazioni come la traduzione di testi, il riconoscimento delle canzoni, la ricerca di immagini o GIF, e l’autoproduzione di bot.
Allo stato delle cose i chatbot sono sulla buona strada per avvicinarsi sempre di più alla simulazione di conversazioni con connotazioni quasi identiche a quelle umane, ma c’è ancora molto lavoro da fare sulla comunicazione del chatbot, sul suo linguaggio e sulla capacità di suscitare reazioni e riconoscere le emozioni dell’interlocutore.
Gli sviluppatori sono già a buon punto, e a dimostrazione di ciò si può prendere ad esempio Sophia, il robot che è in grado di intrattenere conversazioni con le persone rispondendo sulla base di collegamenti logici e cognitivi propri del ragionamento umano.
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